Pregiudizi di base
La tecnologia ha un impatto estremamente significativo nella vita quotidiana delle persone.
Ancor prima che qualunque invenzione o innovazione irrompesse nella storia dell’umanità per definire modalità più comode, semplici e sicure di risoluzione dei problemi, l’essere umano aveva l’onere di compiere incarichi gravosi, raccoglieva informazioni su supporti cartacei e intratteneva relazioni con i propri simili unicamente dal punto di vista fisico. Spesso ci si dimentica persino di come vivessero i nostri antenati, tra loro distanti, con rapporti alterni e scollegati, nella speranza che non trascorressero giorni, settimane, mesi o anni per poter riabbracciare i propri cari, lontani per le ragioni più disparate, che fossero belliche, economiche o familiari.
Dalla scoperta della stampa a caratteri mobili, della macchina a vapore, dell’elettricità e delle telecomunicazioni, il mondo è diventato sempre più interconnesso, specie con gli avventi della digitalizzazione e della globalizzazione: la nascita del web, dei social network, delle piattaforme di instant messaging, dell’e-commerce e l’introduzione dei transistor nel mercato dei computer e degli smartphone rappresentano fenomeni rivoluzionari che hanno comportato profondi cambiamenti nelle abitudini degli individui, nonché nei consumi e nella produzione di beni e servizi su larga scala, con inevitabili conseguenze sull’evoluzione delle global supply chain di ogni settore industriale, dell’economia mondiale e, in particolare, delle dinamiche ecologico-ambientali.
Diversi sono gli atteggiamenti rivolti al continuo adattamento imposto dalla tecnologia: si passa da quello catastrofista di chi l’accusa di essere alla radice di tutti i mali del mondo moderno a quello di chi, invece, ne sostiene entusiasticamente le migliorie innovative nel loro apporto al sociale.
Nel film “Tempi moderni” (1936) di Charlie Chaplin, è possibile prendere visione delle alienazioni imposte dalla moderna catena di montaggio, del conflitto uomo-macchina e delle critiche mosse verso il cosiddetto “sogno americano”, tanto promettente quanto illusorio. Nel romanzo di fantascienza distopica “1984” (1949), scritto da George Orwell, si viene completamente catapultati in un ipotetico mondo futuro nel quale l’uso invasivo di speciali teleschermi consente ad un governo fortemente totalitario di annullare la libertà di cittadini che, apparentemente del tutto fedeli al regime, non mostrano alcun tipo di malcontento o istinto di rivalsa sociale, ad eccezione del protagonista, contrario al sistema costituito; e ancora, nella serie tv antologica “Black Mirror”, si rinvengono realtà angosciose e spiazzanti ambientate in contesti futuristici, ma ispirati al mondo odierno, ai problemi di attualità e alle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie, in particolare nel campo dei media.
Sviluppo sostenibile: paradigma od ossimoro?
Negli ultimi due decenni, gli accesi dibattiti sul ruolo del digitale hanno evidenziato quanto sia fondamentale l’individuazione di driver in scienze e tecnologie che, combinate tra loro, possano restituire nuovi paradigmi d’azione, d’approccio e di pensiero nei confronti delle maggiori criticità globali: tra questi, un esempio lampante è rappresentato dallo sviluppo sostenibile, un nuovo modello di gestione delle risorse materiali, naturali e umane per ovviare alle recenti esigenze mondiali in una logica di equilibrio olistico tra benessere sociale, crescita economica e sostenibilità ambientale nell’interazione tra civili, imprese e governi attuali e futuri.
L’obiettivo è presto detto: inizializzare, integrare e strutturare le nuove tendenze tecnologiche proprie dell’Industria 4.0 al fine di restituire un framework di riferimento in cui l’innovazione possa diventare un acceleratore per il conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, nonché motore per la ripresa economica, sociale ed ecologica nello scenario mondiale post-pandemico.
In tal senso, emerge in maniera rilevante l’accezione apparentemente ossimorica nel rapporto intercorrente tra lo sviluppo economico e la sostenibilità: sebbene le nuove tecnologie appaiano inevitabilmente come una delle principali fonti di progresso, ora viene reso evidente come queste possano comportare impatti negativi sulle prospettive economiche di lungo periodo a causa degli elevati rischi nella determinazione di nuove forme di inquinamento esacerbate proprio dall’urgente e smodata richiesta di beni e servizi sempre più innovativi e performanti. «Ecologia ed economia stanno diventando sempre più interconnesse a livello locale, regionale, nazionale e globale in una rete senza soluzione di continuità di cause ed effetti».[1]
Di recente, in accordo con i precetti della trasformazione digitale in atto, lo sviluppo sostenibile ha ricevuto un riconoscimento ragguardevole quale principio fondamentale nei piani comunitari europei e nei Sustainable Development Goals (SDGs) dell’Agenda ONU 2030, a fronte anche dell’interdipendenza sistemica delle sfide globali insite negli stessi. Queste linee direttrici sono ravvisabili nelle performance atte a misurare i progressi compiuti nel raggiungimento dei sopracitati obiettivi, attraverso l’ausilio di un complesso sistema di strumenti, realizzato con l’auspicio di contribuire al dibattito inerente all’ibridazione dei canonici indicatori statistici con le diverse impronte ambientali esistenti in un quadro coerente su cui poter basare la formulazione delle politiche internazionali e la valutazione degli inevitabili compromessi in materia ecologica e tecnologica.
Survey: credi che la sostenibilità dovrebbe essere una prorietà per chi sviluppa?
A che punto siamo?
Ad oggi, il quadro globale degli indicatori per gli obiettivi di sviluppo sostenibile contiene 231 indicatori unici, redatti dall’Inter-Agency and Expert Group on SDG Indicators (UN-IAEG-SDGs) e presenti nella risoluzione adottata dall’Assemblea generale sui lavori della Commissione statistica relativa all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (A/RES/71/313).[2]
Analizzando nel dettaglio ogni singolo indicatore aggiornato ad ottobre 2023,[3] è possibile evidenziare interessanti orizzonti riguardanti l’implementazione dei suddetti indicatori non soltanto in chiave digitale, ma anche e soprattutto sul piano aziendalistico e ambientale. Se la trasformazione delle imprese dipenderà dalla loro capacità di adottare rapidamente e in modo generalizzato nuove tecnologie digitali, specie negli ecosistemi delle industrie e dei servizi che stanno registrando un certo ritardo integrativo, è opportuno che vengano adottate, monitorate e valutate soluzioni caratterizzate da una minore impronta ambientale, da una maggiore efficienza energetica e da un uso sapiente delle risorse a disposizione.
Con il sostegno di poli dell’innovazione digitale e cluster industriali, le PMI, sia quelle innovative sia quelle non digitali, hanno l’onere di raggiungere un elevato livello di digitalizzazione che tenga conto delle dinamiche ecologiche; d’altra parte, tali realtà svolgono un ruolo centrale in questa transizione, non solo perché rappresentano numericamente la maggior parte delle imprese al mondo, ma anche perché sono una fonte essenziale di innovazione.
Incrociando queste predisposizioni, è ipotizzabile possano innestarsi disamine ecologiche di qualità nelle variabili che compongono svariati indicatori meramente quantitativi: ne è un esempio il Digital Intensity Index (DII), ossia l’indice europeo di intensità digitale che misura l’uso di diverse tecnologie digitali in ambito imprenditoriale, su una scala che va da zero a dodici, il cui livello base corrisponde ad una situazione tipo nella quale un’azienda ottenga un punteggio pari o superiore a quattro.
In dettaglio, l’indice è basato su dati microeconomici che misurano la disponibilità nell’impresa di dodici diverse tecnologie digitali: Internet per almeno il 50% del personale dipendente, ricorso a specialisti del settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, banda larga veloce (almeno 30 Mbps), dispositivi internet mobili per almeno il 20% degli occupati, presenza di un sito web, utilizzo di un sito web con funzioni sofisticate, uso dei social media, pagamento della pubblicità su Internet, acquisto di servizi avanzati di cloud computing, invio di fatture elettroniche, fatturato del commercio elettronico che rappresenta oltre l’1% del fatturato totale e vendite online da impresa a consumatore (B2C) pari a oltre il 10 % del totale delle vendite via web.[4]
Per quanto ambizioso, l’obiettivo di ibridare indicatori statistici, che misurino risultati quantitativo-tecnologici, con dinamiche di stampo ecologico, che indaghino aspetti qualitativo-ambientali, ben si sposa con una nuova idea di “azienda-piattaforma” i cui fattori critici di successo si sostanziano nella definizione di una nuova ecologizzazione del pensiero strategico d’impresa e dell’approccio manageriale: a fronte delle recenti crisi subìte dall’economia globale, le criticità della doppia transizione digitale e verde appaiono sempre più evidenti e di difficile risoluzione, ma il rapporto dialogico tra le trasformazioni digitali e lo sviluppo sostenibile delle stesse ne permette un riallineamento sinergico e strategico negli intenti sul piano politico, economico, sociale, tecnologico e normativo, con l’augurio teorico e pratico che ogni espressione dell’essere umano possa ambiziosamente perseguire tanto le orme dell’industria tecnologica quanto le impronte ambientali sulla medesima strada.
[1] Fonte: www.sustainabledevelopment.un.org/content/documents/5987our-common-future.pdf.
[2] Fonte: www.documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N17/207/63/PDF/N1720763.pdf?OpenElement.
[3] Fonte: www.unstats.un.org/sdgs/dataContacts/
[4] Fonte: www.eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52021DC0118#footnote10